Introduzione

Sinora, il saggio felice ha suscitato un sorriso di comprensione da parte del suo pubblico, o al massimo un’approvazione mista a pietà. Nel frattempo, come ci insegna la filosofia orientale, il sentimento di felicità è il più alto tipo di iniziazione all’infelicità, alla sofferenza, che può essere domata solo con un sorriso sprezzante. Di questa vera e propria scuola di pensiero positivo, che rattoppa le ferite aperte della disperazione, abbiamo anche un frammento nell’atteggiamento dell’altezzoso Sisifo ridente di Camus o nella ricerca edonistica di Kohelet. Per non parlare di Platone, Spinoza o Voltaire. “Vale la pena ridere”: questa affermazione colloquiale contiene una grande quantità di saggezza derivante da un’esperienza dolorosa, cosparsa di un pizzico di cinico disincanto. La stessa categoria della gioia riproduce sinonimicamente questo atteggiamento, forse in modo più affermativo e con un pensiero meno nichilista.

Saturno ed Eros. La gioia come forma di conoscenza di sé

La conoscenza malinconica, personificata da figure come Walter Benjamin o Theodor W. Adorno, è un’estensione di questa tensione primaria nella strumentalizzazione della gioia come affetto autarchico (da un lato) e utopia nominalista e feticismo dell’immediatezza (dall’altro). Nell’articolo, alla “conoscenza malinconica” si accompagnano altri due tipi di gioia: l’etica del cuore di Kant, e la “conoscenza gioiosa” di Nietzsche, entrambe apparentemente fenomenologiche, raggiungono il confine della gioia come condizione di possibilità o impossibilità della vita e della conoscenza. In questo modo si può comprendere la tensione che radicalizza davvero la gioiosa modernità: tra Saturno ed Eros, tra critica epistemologica e fiaba.